Quando e come è nato il tango a Roma? L’abbiamo chiesto a due pionieri: Eliana Montanari e Alì Namazi, fondatori dello storico Tangobar, con cui a dicembre 2011 abbiamo avuto una lunga chiacchierata sugli esordi e sull’andamento che sta prendendo il nostro ballo nella nostra città.
Quando entra il tango a Roma, e qual è stato il vostro apporto?
Eliana: Il primo incontro con il tango l’ho avuto nel 1986, su un treno che andava a Parigi dove un ragazzo argentino cantava un tango. Lì ho ricevuto un’altra folgorazione con il film “Tangos: el exil del Gardel” di Fernando Solanas. A Roma eravamo in 4-5 a cercare il tango ma nessuno lo conosceva (lo associavano al liscio romagnolo!). Non so come siamo finiti in un gruppo latino-americano di danze folkloriche, dove ci proposero di fare una tournèe di tango che accettammo di fare pur non essendo dei veri ballerini! Alle spalle c’era una compagnia seria con tanto di musicisti al seguito, e proprio perché non conoscevo il tango questa situazione mi ha spinto a studiarlo per non essere impreparata.
La Casa della Cultura argentina organizzò un corso di tango, il primo in assoluto in Italia, tenuto dal maestro Carlos Valles per due anni, che era l’unica possibilità di imparare il tango in quel momento. Poi andai dalla tedesca Helene Pede, che insegnava il tango a La Maggiolina a Montesacro e sapeva fare i passi dell’uomo, di cui divenni assistente (facendo la donna). Nel frattempo aprì una scuola anche Silvia Vladiminsky, proveniente dal teatro fantastico di Buenos Aires e il cui stile di ballo si avvicinava più alla danza contemporanea e al balletto che al tango (non amava l’ambiente tanguero). Avevamo iniziato la diffusione grazie a incontri, feste, balli a cui partecipavano anche esuli dalla dittatura argentina. Nel frattempo si aggiunse anche Alì al corso della Pede, e andammo a studiare anche in Germania. Poi io e Alì abbandonammo il gruppo di Silvia formandone un altro: l’associazione Tangopolis. Nel 1992 ho collaborato alla prima rassegna di tango argentino in Italia in collaborazione con l’associazione Italia-Argentina e con i fondi della Regione per mostrare il panorama di tutto quello che c’era di tango a Roma in quegli anni: Silvia, Helene, Meri Lao, Quinteto Buenos Aires, attori di teatro argentino, il film “Tango baile nuestro” presentato in anteprima e in una delle sue poche proiezioni in Italia al cinema Glauco, un film bellissimo che voleva lasciare una testimonianza in quanto l’autore riteneva che il tango stesse morendo. Abbiamo iniziato la nostra attività alla Garbatella perché avevamo poche risorse e credevamo che un centro sociale fosse il luogo giusto per il tango, spalmando le iniziative una volta a settimana per due mesi, e questa intuizione è stata vincente perché con il passaparola sono venute migliaia di persone! Non volevamo fare un grande festival o un evento di “vetrina”, ma un evento culturale che potesse incidere: e da allora si è iniziato a creare un movimento. C’era quindi più forza per invitare maestri: Gustavo Naveira tenne uno stage (già veniva in Europa con Maria Pantuso, che all’epoca era più famosa di lui, che intercettammo quando venne a Roma). Poi Helene si è allontanata, e siamo rimasti io e Alì a svolgere un’attività regolare: il “lunedì della Maggiolina”, la prima milonga di Roma, un appuntamento fisso che poi è diventato una scuola. Nel ‘94 fondammo il Tangobar. Vennero tutti a intervistarci: televisioni, radio, giornali, svolgendo un’azione amplificatrice che attirò gente. Quello stesso anno facemmo uno stage con Miguel Angel Zotto, a Roma con uno spettacolo; poi abbiamo portato a Roma anche Eduardo e Gloria (che abbiamo conosciuto in Germania).
Alì: Poi sono nate altre scuole perché gli allievi diventavano insegnanti a loro volta, anche in Europa: in quel periodo c’erano un piccolo gruppo a Berlino, Brema, Parigi e Amsterdam. Noi volevamo aprire uno spazio dedicato solo al tango, per cui anche il locale ha un’impostazione che richiama DENTRO e non fuori, come se si entrasse in un altro mondo. È stato un rischio, anche perché all’inizio non rientravamo con i soldi…
E.: Io non tenevo a questo successo, all’inizio ero molto gelosa del tango e non vedevo la necessità di contagiare tutti, ma nel tanguero c’è la mentalità di coinvolgere.
A.: Il tango ha una musica malinconica (come in Iran da dove vengo) ma che ti dà forza, che ti fa “volare”. Dopo i primi passi scopri che stai facendo una danza che ti è sempre appartenuta, senti che hai trovato una passione in cui puoi perderti. Per questo abbiamo lasciato i nostri lavori per fare solo questo. Sembrava un investimento su di se stessi, perché vivendo il tuo corpo era un modo per sentire nel corpo l’universalità della musica, ti senti unito con tutto il resto del mondo, non ci sono margini, rompe tutte le condizioni sociali che ti fermano. Non finisci mai di scoprirti e scoprire quello che puoi dare, è come un magazzino riempito continuamente. Ti prende una malattia: io vedo un passo di tango anche in un quadro di Botticelli!
E.: È una danza che contiene elementi partiti da diverse culture, è una sintesi identitaria, ha un DNA universale, per questo tutti ci si possono ritrovare.
Quando c’è stato il boom del tango a Roma?
A.: Dal 2000 in poi, nel 2003-4 l’apice. Il mercato a un certo punto ha dominato il tango, però l’essenza rimane e credo che prima o poi uscirà fuori. Anche in Argentina si è creato un mercato per il turismo del tango.
Com’è cambiato l’ambiente tanguero oggi? Cosa si è guadagnato e cosa si è perso?
E.: Ora il tango è diventato una “moda”. Il fascino si nutre un po’ anche dell’assenza secondo me, mentre adesso il tango è troppo presente, c’è un senso di saturazione che non credo faccia benissimo al tango, che forse prenderà un’altra piega. Io ho conosciuto un altro spirito. Il tango è una danza viva che viaggia con la società, e ora c’è una mentalità di consumo toccata e fuga. Quando l’allievo ti conferma devi dare qualcosa di più, devi crescere. Senti che è il TUO allievo, e sei responsabile di quella persona. Adesso questa cosa c’è meno perché gli allievi girano, e questo ti “alleggerisce”. Adesso c’è la mentalità di voler fare tanto in poco tempo.
Il tango “dà la sensazione di essere una moltitudine, ma è una serie di parrocchie”, per citare una definizione. Fin dall’inizio ci sono state fazioni, e chiunque si avvicina al tango diventa un avversario. Forse l’ambiente dell’emigrante è competitivo perché deve affermarsi e farsi largo. Purtroppo era ed è rimasto così. Ogni scuola è un avversario. Ora però allargandosi l’ambiente si è un po’ rasserenato.
A.: Forse il conflitto deriva dal fatto che molti trovano nel tango l’espressione vera di sé, aggrappandosi a quella che diventa per loro una bandiera, cosa che non succede nel lavoro. Quando vedi uno che va in un altro posto ti metti in discussione te, quella del tanguero diventa come un’IDENTITÀ PREPONDERANTE. La differenza fra prima e adesso è che il tango deve cedere alle esigenze economiche-sociali esistenti, con un elemento peggiorativo. Io personalmente sono lontano dal concetto di consumo di cultura.
E.: Quando il fenomeno tango è cresciuto ci hanno offerto posti più grandi ma abbiamo sempre rifiutato perché non volevamo riempire la sala, per me che all’inizio l’ho vissuto diversamente sarebbe impossibile ragionare in questi termini. Io so chi sono le persone che vengono da me e ho un contatto con tutti: per questo siamo voluti rimanere in un posto piccolo, non ho bisogno né voglia né potrei piacere a tutto il mondo. Il concetto commerciale non mi piace. Posso ancora scegliere di non fare cose con chiunque. Preferisco lasciare il tango come lavoro se devo scendere a compromessi. Il tango non è la sola cosa bella della vita, non è che se non sono più una tanguera muoio!, non ho una forma di DIPENDENZA come ce l’ha qualcuno. La cosa bella è quando sei libero e ami una cosa e puoi farne a meno, non perché sei costretto per una compulsione.
Il tango cambia, non si può mummificare in una forma. Non esiste l’identità fissa in niente, e dato che il tango è una danza viva il tentativo di irrigidirla in una forma non è sostenibile. I mezzi di comunicazione se ne sono appropriati e sta diventando una cosa esteriore e non più interiore. Si è formato un certo gusto, anche cattivo, specialmente a causa della televisione per cui si apprezzano cose dietro cui non c’è niente. Così non è più emozionante ma noioso, è solo una gara di figure per stupire chi guarda e non per vivere un’emozione e un modo di comunicare con l’altro, rappresenta sé stesso, una forma vuota, non passa un’emozione.
Claudia Galati