“La mia libertà mi assolve se qualche volta la perdo, per cose della vita che non riesco a comprendere”. Nulla di più autentico se a pronunciare queste parole è un detenuto vero, prendendo a prestito il verso del tango più famoso di Astor Piazzolla, che infatti fa da sottofondo all’ultima scena della rappresentazione teatrale di Antonio Turco: “L’ultima canzone”, andata in scena al Teatro Golden il 6 maggio scorso. Scena che vede i detenuti della Compagnia Stabile Assai della Casa di Reclusione di Rebibbia (un ramo diverso rispetto a quello protagonista del film Orso d'oro a Berlino 2012 dei fratelli Taviani "Cesare deve morire", da cui è "migrato" l’attore-detenuto Cosimo Rega cui è stata ridotta la pena) declamare a gran voce, ognuno nella propria lingua o dialetto di origine, la famosa letra di Horacio Ferrer, aggirandosi per il palco come farebbero durante l’ora d’aria. Detenuti veri che attraverso il tango parlano in un’ottica originale e insolita sì di carcere, ma anche di temi universali, e più precisamente attraverso la storia del protagonista Osvaldo Pugliese: maestro e amico di Piazzolla, incarcerato più volte perché ritenuto “pericoloso” per le sue idee moderne e anticonformiste, “la storia di un anarchico”, per dirla con l’autore, “per i temi rivoluzionari che proponeva con la sua musica”. Ed ecco quindi come un tema apparentemente distante dallo spettatore arriva ad abbracciare la totalità degli esseri umani, reclusi e non.
La messa in scena ruota intorno alla compagnia teatrale di Pugliese che sta allestendo uno spettacolo, in attesa che il Maestro esca di prigione dove è stato condotto per l’ennesima volta senza un motivo. “Il Maestro è nostro gradito ospite! Accompagnatelo senza manette. Ma la sua permanenza, come sempre, non sarà lunga”, annuncia il Direttore del carcere trovandosi il compositore davanti. E proprio come due conoscenti di lunga data, si intrattengono l’un l’altro con discorsi su immigrazione, omossessualità, carcere, vita, morte. E tango: “Il tango è diventato un modo di aggregare la gente”, afferma Pugliese; “Piazzolla spezza le frasi ancora più di voi, pecca di essere innovatore. La vostra musica arriva meglio delle parole: qualche volta è meglio fermarvi, per il bene del Paese”, gli fa eco il Direttore.
La ricostruzione storica diventa sempre più pregnante, creando continui balzi temporali tra le esperienze di Pugliese e le storie della gente comune, del popolo: scopriamo così che i fan volevano Pugliese al Teatro Colon, il tempio della lirica di Buenos Aires, e nel 1935 per la prima volta un’orchestra di tango vi entra, la sua appunto. E poi veniamo a conoscenza di storie di anarchici della Boca, emigranti dall’Italia diventati eroi del popolo per il loro spirito di ribellione e puntualmente imprigionati o uccisi. Allo stesso modo, “il Maestro non fa politica attiva, ma ha presa sul popolo perché è un artista. Il suo è il Tango del Popolo”.
Alla fine dello spettacolo lo va a trovare Piazzolla, in procinto di partire per Parigi per andare ad apprendere la tecnica del contrappunto. “Il tuo futuro è il tango”, lo ammonisce Pugliese. “Se mio padre non mi avesse comprato un bandoneón sarei finito in carcere”, ammette Piazzolla. Ed ecco tornare il tema del carcere, che è “bianco o nero: dalla luce dell’ora d’aria al buio delle celle…anche il tango sembra prediligere più il buio alla luce.”, riflette Pugliese. “Per me fare musica significa rientrare in carcere”. E in questo senso può essere letta l’affermazione del Maestro: in un contesto politico ostile e conservatore, l’arte e la creatività sono viste sì libertà espressiva, ma anche utopia (“Il tango è la musica di ciò che poteva essere e non è stato”), e come tale possono rappresentare persecuzione e prigionia.
Spettacolo commovente, intenso, dal forte impatto emotivo, con orchestra dal vivo, ha offerto un prezioso spunto di riflessione sulle carceri italiane, e più nello specifico un tentativo di sensibilizzazione sulla condizione del detenuto-recluso che ritrova la propria umanità grazie all’arte. “Non c’è né arte né nient’altro nelle carceri”, lamenta la regista dello spettacolo Daniela Marazita, che da anni cura i laboratori teatrali per i detenuti presso il carcere di Rebibbia. “I detenuti si riempiono il cervello di pensieri negativi, non c’è comunicazione: con il teatro il carcere ha un ruolo. Per un attimo, per il tempo della rappresentazione siamo stati uguali, noi pubblico e loro, abbiamo abbattuto le barriere, e forse ora chi ha assistito allo spettacolo ha meno pregiudizi. La società si deve far carico del carcere. Non tutte le carceri hanno una compagnia teatrale, e se ce l’hanno non tutte possono uscire: questo renderebbe il carcere produttivo, e non soltanto punitivo. Bisognerebbe che cambiasse la mentalità della società”.
Claudia Galati