È uno dei testi teatrali più importanti ed emblematici di tutto il Novecento. Parliamo di Aspettando Godot di Samuel Beckett, riproposto al Teatro Ghione con la regia di Claudio Boccaccini fino al 30 aprile. Allestimento efficace e curato, interpreti capaci e ottima intuizione di far parlare i protagonisti in dialetto napoletano e romagnolo.
Gli inseparabili (loro malgrado) vagabondi Vladimiro ‘Didi’ (Pietro De Silva) ed Estragone ‘Gogo’ (Felice Della Corte) sono immersi nella nebbia tra sacchi di immondizia e giornali sparsi per terra, in un panorama spoglio e desolato con solo un albero striminzito sullo sfondo: il punto di riferimento per incontrare un certo Godot, che continua a rimandare l’appuntamento preso. “Aspettare Godot” è diventato un modo di dire per raffigurare una situazione in cui si aspetta inutilmente un avvenimento ‘imminente’ che non accade mai (un po’ come ne Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati, dove però i Tartari effettivamente arrivano, ma quanto il protagonista è in punto di morte, avendo ormai sprecato tutta la vita nella vana attesa), senza attivarsi per realizzarlo.
Per ingannare l’attesa ed il non-tempo che non trascorre mai, i due si scambiano dialoghi sconnessi e futili che rimandano al vuoto, alla crisi di valore della realtà e al nonsenso della vita umana. Il linguaggio non riproduce più la realizzazione della volontà individuale, non esiste più legame fra parola e azione, fra il linguaggio e la storia che dovrebbe raccontare.
L’unico evento che fa “passare il tempo” è la comparsa di Pozzo (Riccardo Barbera), il “proprietario del terreno”, con al seguito – al ‘guinzaglio’ – il servo Lucky (Roberto Della Casa), presenze stranianti che si ripresentano il secondo giorno rispettivamente cieco e muto. Una ripetizione con piccole varianti di quello che appare a tutti gli effetti un ciclo infinito che reitera sempre lo stesso schema, in cui sembra preclusa qualsiasi possibilità di cambiamento, che fa chiedere a Gogo se non abbia solo sognato, se non l’abbiamo solo lasciato dormire.
Un classico su cui si continua a dissertare e su cui è stato detto e scritto tutto: la critica al teatro borghese imperante fino allora, ai suoi schemi (voyeuristici) e ai suoi linguaggi convenzionali attraverso la contaminazione dei generi; la visione dissacrante della religione, in un mondo figlio della seconda guerra mondiale in cui Dio sembra non trovare più posto; il nonsense dell’esistenza umana, e di riflesso dell’opera stessa; la denuncia della fine di ogni fiducia in un possibile ordine razionale. Infine, R. Barone ne: Il divertimento Beckettiano suggerisce che la parola Godot è formata dalle parole inglesi go (va) e dot (fermo), con l’intento di sottolineare la frustrazione dell’uomo nel suo tentativo fallimentare di ‘muoversi’, procedere, cambiare la sua posizione.
Molte le tematiche in gioco nel dramma, oltre a quelle sopra citate.
La condizione sociale e di classe, evidente nel sottomesso Lucky che ‘desidera’ essere trattato come uno schiavo dal padrone, salvo quando gli viene chiesto di ‘pensare’ (“È possibile?”): si sfoga, poi torna nei ranghi.
La condizione esistenziale umana sempre uguale a se stessa, miserevole, mutevole: “Quando uno inizia a piangere da un’altra parte c’è qualcuno che smette”, afferma Pozzo, e lo stesso vale per il riso: “Nel mondo è sempre stato così, perciò non parliamo della nostra epoca.” Una condizione, quella umana, apparentemente insensata in cui Godot rappresenta la Salvezza, scevra di ogni interpretazione religiosa, il riscatto auspicato (“Ci impiccheremo domani se Godot non viene”), il Senso di cui si ha bisogno per sopravvivere in maniera dignitosa, che è però destinato a sfuggire e a restare irraggiungibile. Nonostante questo, i due infelici non possono fare a meno di tornare ad aspettare ogni giorno, così come non possono separarsi l’uno dall’altro, né muoversi o reagire (perfino quando Didi viene picchiato da altri senzatetto). Dopo l’ultimo incontro con il ‘messaggero’ di Godot, Didi e Gogo si dicono: “E ora? Possiamo andare?” “Sì, andiamo”; ma nel frattempo non si muovono.
Chi è Godot? Non è Dio – lo conferma Beckett stesso. La potenza dell’opera non è capire o sapere chi è questo fantomatico individuo – di cui anche le fattezze appaiono incerte, vaghe e labili -, quanto il fatto stesso di non attribuirgli alcuna identità definita e il non farlo arrivare mai, simbolo dell’incertezza suprema, che determina un assurdo immobilismo ed apatia. Un concetto quanto mai moderno e attuale, in una società tutt’ora in cerca di valori solidi cui aggrapparsi per resistere all’insensatezza della vita e dell’umano agire.
Claudia Galati