“In quante lingue e dialetti è stato scritto Dante? Qui dentro spesso ignorano la letteratura, quasi sempre. Se avessimo avuto l’opportunità di studiare la letteratura italiana e Dante Alighieri, varcando il portone del carcere avremmo sentito risuonare i celebri versi: “Qui si va nella città dolente/qui si va nell’eterno dolor/qui si va tra la perduta gente”, versi che abbiamo imparato troppo tardi, quando ormai avevamo varcato la soglia. “Lasciate ogni speranza o voi che entrate.” Ma meglio tardi che mai: la vita reclusa, la riflessione sulle nostre responsabilità sono causa di un dolore che è difficile da esprimere. E noi per questo facciamo teatro: per cercare di esprimere il senso di questo dolore attraverso le parole di chi ha la fantasia, l’immaginazione, la sensibilità per farlo: i grandi poeti. Quando poi il poeta è Dante, un esiliato, un condannato, uno che ha passato metà della sua vita da latitante, bisogna ascoltarlo e riflettere. E noi per questo siamo qua.”
Recita l’articolo 27 della Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. È in questa prospettiva che La Ribalta – Centro Studi Enrico Maria Salerno da quindici anni diffonde e crea opere teatrali e cinematografiche di prestigio internazionale con i detenuti del carcere romano di Rebibbia, dando occasione di incontro fra i detenuti e la società. Incontro che ha avuto il suo apice il 20 ottobre 2016 con la chiusura dell’iniziativa “Festa del Cinema a Rebibbia”, quando per la prima volta è stato proiettato in full-HD uno spettacolo in live-streaming da un carcere: Dalla città dolente – Colpa, Pena, Liberazione attraverso le visioni dell’Inferno di Dante, con i detenuti attori del Teatro Libero di Rebibbia – G12 A.S, drammaturgia e regia di Fabio Cavalli, dall’Auditorium di Rebibbia all’Auditorium del MAXXI. Il tutto con l’accompagnamento dell’Orchestra dal vivo (non detenuti) composta da: Vanessa Cremaschi al violino, Daniele Veroli al clarinetto, Giulia Jovane al violoncello e diretta dal Maestro Franco Moretti, anche autore delle musiche.
Un lavoro di qualità in ogni aspetto drammaturgico: la sceneggiatura, l’esegesi chiara e comprensibile del testo, l’uso sapiente delle luci per creare l’atmosfera e delle musiche, mai invadenti. Buona anche la recitazione, aspetto non da meno. D’altronde, seppur reclusi, parliamo di attori professionisti.
Oltre ai presentatori dal MAXXI – l’attore e regista Massimo Ghini, l’attrice, regista e scrittrice Francesca D’Aloja, la Presidente del Festival del Cinema di Roma Piera Detassis, la direttrice artistica del centro studi “Enrico Maria Salerno” Laura Andreini Salerno ed il coordinatore artistico del comitato di selezione della Festa del Cinema Mario Sesti, – parata anche di rappresentanti istituzionali presso il Teatro della Casa Circondariale di Rebibbia: il Sindaco di Roma Capitale Virginia Raggi, il Vicesindaco Daniele Frongia, il Vicepresidente della Camera Luigi Di Maio, il Vicepresidente della Corte Costituzionale, il Garante per i diritti dei detenuti della Regione Lazio, il Rettore di Roma Tre, magistrati di sorveglianza e Santi Consolo, capo dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. E tra il pubblico, anche una folta schiera di studenti liceali.
“Dalla Città Dolente”, dunque, ossia l’Inferno dantesco che assume evidente parallelismo con il penitenziario di Rebibbia. Le allegorie di cui Dante ha disseminato la Commedia a loro volta ne generano altre per bocca degli attori, creando l’allegoria nell’allegoria: così l’Inferno è il carcere, i “dannati” i detenuti stessi e i “demoni” le guardie carcerarie; il Purgatorio invece, “luogo di espiazione dal quale non è bandita la pietà, compassione e solidarietà” è il teatro del carcere, dove gli spettatori sono le anime “pietose e compassionevoli. Ma c’è una piccola differenza: noi tra pochi minuti torneremo nel nostro Inferno, voi invece uscirete a riveder le stelle. Vi prego, fate sì che questa pagina venga letta anche fuori dal questo inferno, fate sì che anche fuori ci conoscano.” Ed ecco quindi che il Paradiso diventa lo spiraglio della speranza, della libertà da riconquistare.
I due non-luoghi hanno molto in comune tra loro, e nella piéce questa stretta correlazione viene messa in risalto attraverso le voci degli attori-detenuti che illustrano “ognuno il suo Canto, ognuno il suo peccato” tra quelli più significativi e famosi del Poeta, riadattati alle proprie esperienze in carcere e proposti anche in traduzione siciliana, napoletana e calabrese, alternando situazioni struggenti e intense con altre affrontate in maniera più “leggera” e ironica.
Così Ciacco da Firenze, nel girone dei golosi, è presentato da un “diabetico di 120 kg, carcerato, goloso, all’inferno”, in chiave rigorosamente comica (“d’altronde, come si fa a condannare tutto il ben di Dio di cibi che abbiamo?”); l’accidia, il peccato di chi ha noia di vivere, indolenza, apatia, tristezza, malinconia, depressione, ozio inutile, è presentata come una parentesi scherzosa per dire che tutte queste declinazioni del termine “per noi non sono un peccato come lo sono per voi, ma sono un rischio quotidiano”; il Canto di Ulisse viene introdotto dal trio di detenuti siciliani che, in toni ludici, ne rivendicano campanilisticamente la ‘parentela’ essendo le avventure dell’eroe greco “ambientate tutte in Sicilia”, declamando la sua ultima avventura in dialetto per un effetto evocativo e potente.
Nella complessa opera dantesca “emergono personaggi di una umanità e di una dignità pur nella consapevolezza dell’errore e dell’inevitabile condanna. I grandi peccatori danteschi sono portatori universali dell’emozionante tragicommedia del vivere e del morire. Per questo per alcuni di loro la pena è come sospesa, la stessa giustizia divina non osa infierire: non osa spezzare l’abbraccio d’amore tra Paolo e Francesca; ad Ulisse e Diomede (compagni di inganni) è consentito rimanere uniti per l’eternità; persino al Conte Ugolino, immerso nel suo dolore nel più profondo dei gironi, quello dei traditori, Dio concede per l’eternità di sfogare la sua rabbia affondando i denti nel teschio dell’arcivescovo Ruggeri, l’affamatore dei suoi figli.” Di quest’ultimo drammatico Canto viene proposta la versione in dialetto calabrese, come tradotta dal poeta Salvatore Scervino, alternata ai versi originali in volgare.
Forse il momento più toccante è coinciso con uno dei Canti più celebri dell’Inferno, restituito in una traduzione napoletana dell’800: quello di Paolo Malatesta e Francesca da Rimini, in cui vengono puniti i lussuriosi. In apparenza l’argomento più distante dalla condizione dei detenuti, e invece…: “Parlando del carcere bisogna dire questi versi per forza, perché sembra che parlino di una storia d’amore antica, e invece parlano soprattutto della nostra vita. Qui, dove l’amore è proibito per legge. Poco distante da qui c’è un parlatorio dove per un’ora a settimana incontriamo le nostre donne. Ci stringiamo forte le mani più che possiamo, uno di qua e l’altra al di là del muro. In quel momento, ciascuno è Paolo e ciascuna è Francesca. Le parole che ascolterete sono le più belle, vere e terribili per descrivere cosa prova un essere umano quando l’amore lo può solo ricordare, e rimpiangere giorno dopo giorno, nel silenzio del suo inferno.” Un racconto forte e coinvolgente, ben riassunto dalle lacrime di commozione che la violinista sul palco non riusciva a smettere di asciugare.
Per citare le illuminate ed illuminanti parole di Consolo: “Questo teatro è luogo di attrattiva fortissima per tutti. È un’iniziativa che ci collega all’amministrazione comunale della città, su cui contiamo tanto per un reinserimento e una testimonianza nella città delle nostre persone detenute, che sono i nostri figli che dobbiamo tutti aiutare. Persone cariche di un’umanità e capaci di esprimere sentimenti, passioni, di manifestare il loro intimo, il loro cuore attraverso questa nuova tecnologia che sa leggere dentro, e quindi siamo tutti fiduciosi perché ci dobbiamo tutti confrontare, come nello spettacolo: ci sono i vinti, ci sono le persone che devono espiare le colpe ma c’è anche l’arroganza del potere, e quindi è un dialogo dall’interno all’esterno. Noi il nostro carcere lo vogliamo così, lo vogliamo aperto alla società per fare migliorare tutti. Non ci sono buoni e cattivi: tutti dobbiamo cambiare. E con questa fiducia aiutiamo chi recita, ma aiutiamo chi sta all’esterno ad essere ancora più umano.” Ciò, in primo luogo, attraverso la catarsi, che consente agli attori e al pubblico di riappropriarsi di quella umanità che ognuno, a modo suo, ha perso o sembra aver perduto o dimenticato: la loro, da reclusi e reietti senza dignità; la nostra, da spettatori indifferenti e anestetizzati. L’umanità appartiene ad entrambi, ed entrambi possiamo ritrovarla e restituircela reciprocamente: questo spettacolo, almeno per il tempo della sua durata, sembra essere riuscito nell’intento.
Claudia Galati