È con un palco che ricorda una milonga dopo l’orario di chiusura, con le caratteristiche luci dalla forma, quelle a incandescenza di una volta per intenderci, che a chi ha più di trent’anni fanno pensare subito alle festicciole di classe o a una milonga appunto che si apre lo spettacolo: “Tango del calcio di rigore”, in scena al Teatro Brancaccio di Roma dal 15 al 19 gennaio 2020.
Ma non lasciatevi trarre in inganno dall’ambiente: le sedie girate sui tavoli quadrati dipinti di azzurro, i grossi pali scuri (che richiamano quelli più volte citati del campo di calcio) a squarciare verticalmente la scena e che vengono tirati via durante il dipanarsi della narrazione sono incongruenze visive studiate per renderci estraneo un ambiente dall’aspetto quotidiano, elementi che stanno lì a sottolineare l’altezza della scena conferendogli drammaticità, così come il fondale dalla pittura appena abbozzata su uno sfondo nero immerge l’ambientazione in un’oscurità quasi inconscia, dai contorni indefiniti, così come indefiniti sono i ricordi che vogliamo/tendiamo a rimuovere.
Perchè la rappresentazione con protagonisti Neri Marcorè, Ugo Dighero, Rosanna Naddeo, Fabrizio Costella e Alessandro Pizzuto, nonostante la grande dinamicità, è uno spettacolo forte, commovente, che colpisce allo stomaco (non senza momenti ironici), che ci ricorda che spesso lo sport non è solo divertimento e intrattenimento, ma uno strumento sfruttato dal potere per i propri fini illeciti. Appropriata dunque l’atmosfera sapientemente realizzata dallo scenografo e costumista Guido Fiorato per fare da cornice a una narrazione che intreccia i ricordi di un ragazzino con una delle pagine più buie della storia del XX secolo (il cosiddetto Olocausto argentino).
Le storie di tifoso di calcio del protagonista, allora ragazzino ma ormai adulto, e i racconti più o meno veritieri che gli faceva un suo zio Casimiro sono infatti lo spunto narrativo dei ricordi evocati. Tra il figlio-arbitro di Butch Cassidy, calciatori Mapuches, peperoncino per distrarre gli avversari, narcotrafficanti, rigori durati una settimana e partite assurde, la narrazione si dipana in una miscela tra cronaca calcistica, racconti magici e storie reali a volte ancora più incredibili di quelle fantastiche, a volte, purtroppo, orribilmente vere. Tutte però atte a sottolineare che troppo spesso nel corso della storia la passione per il calcio è stata ed è tutt’oggi strumentalizzata dai vari despoti, dittatori e detentori del potere di tutte le nazioni come mezzo di propaganda, di autocelebrazione e di distrazione di massa. L’esempio più palese e filo conduttore dello spettacolo, il mondiale svoltosi in Argentina nel 1978 e in particolare la finale all’Estadio Monumental di Buenos Aires durante la dittatura militare dal 1976 al 1983 di Jorge Videla (in tribuna, tra gli altri, con il suo amico Licio Gelli, “maestro venerabile” della loggia massonica P2), orchestrata appositamente per occultare l’orrore dei mandati a morte sotto gli occhi della popolazione e con il silenzio colpevole ed economicamente interessato del mondo intero.E tutto ciò lo vediamo rappresentato vividamente davanti ai nostri occhi dai cinque attori che cantano bene e recitano anche meglio, avendo nelle loro corde sia i registri drammatici che quelli comici, a conferma della loro versatilità e bravura (estremamente toccante Rosanna Naddea nel ruolo di una delle madri di Plaza de Mayo).
Ma anche dalla messa in scena: il regista Giorgio Gallione ha restituito la narrazione più drammatica in maniera eccellente, con uno stile tra il documentaristico e la rappresentazione informale conservandone tutta la tragicità anche grazie a espedienti visivi di forte impatto, come le foto dei che scendono dall’alto (come tutti gli oggetti di scena) insieme alle succitate lampadine, a formare una sorta di cimitero sospeso tra la terra e il cielo.
La musica – brani di Astor Piazzolla e Mercedes Sosa splendidamente riarrangiati da Paolo Silvestri – viene usata come sottofondo sentimentale più che come mero accompagnamento musicale, e come unica possibilità emozionale per passare da fatti tragici a situazioni esilaranti, scenette comiche raccontate da sopra un tavolo come farebbe un bambino. Indovinato il gioco tra gli attori, il pallone che andava e veniva come a richiamare visivamente il filo conduttore originario, per non smarrirci, per non smettere di ricordare.
Un’occasione anche per togliersi dei sassolini dalle scarpe, per rivolgersi direttamente all’attualità: “I wurstel sono come i telefonini: se ne gode appieno solo se non si sa cosa c’è dentro”, oppure: “Il patriottismo è l’ultimo rifugio dei mascalzoni”.
Carlo D’Andreis