Che rapporto noi, italiani di oggi, possiamo avere con il tango? E in che modo l’italianità ha influenzato il genere? Questi i passi da cui muove il libro: “Tango argentino – la bellezza in un abbraccio” di Stefano Fava, maestro di tango e organizzatore del Lucca Tango Festival, pubblicato da Edizioni Cinquemarzo e dedicato ad Andrea Missé, la famosa ballerina professionista scomparsa tragicamente nel 2012, “una delle più autentiche incarnazioni del vero Tango.”
Chiamando in causa concetti complessi quali identità nazionale, italianità e argentinità, immigrazione, etica, estetica, autenticità di un prodotto artistico e la sua interpretazione, violenza di genere e stereotipi, mutamento e sopravvivenza, Fava ha fatto un’operazione NECESSARIA con una prosa scorrevole e coinvolgente senza scadere nel patetico o in una facile retorica: la storia parla da sè.
Tanguero appassionato e studioso spassionato, quella di Fava può essere definita un’analisi e una critica costruttiva con una sensibilità rara soprattutto per la considerazione della donna. L’indagine procede su due binari: emigranti italiani con le loro storie da un lato e tango e la sua storia ed evoluzione dall’altro, fornendo una prospettiva approfondita del fenomeno anche con esempi di ascolto attivo e comparativo dei brani oggetto di studio. Una dolorosa ricerca storica basata su fonti e documenti scritti, ufficiali e non (scambi epistolari), e su testimonianze dirette (racconti dei “vecchi milongheri”): un “viaggio alle radici del tango”, sia etniche sia ritmiche (vero e proprio viaggio nel viaggio).
Nel 1887 una persona su tre a Buenos Aires era di origine italiana (numeri che ridimensionano la portata delle emigrazioni odierne): per questo quella nostrana è la prospettiva privilegiata in questo libro, che indaga i valori sociali e morali che hanno costituito il substrato del tango nei vari periodi, dalla nascita allo sviluppo e fino alle varie cadute e risalite, per giungere alla sua rinascita ai giorni nostri.
L’operazione dell’autore è quella di ricostruire la storia del tango attraverso i suoi protagonisti noti, meno noti e perfino ignoti: le centinaia di migliaia di poveri derelitti che, migrando dall’Europa e soprattutto dalla nostra penisola, da fine ‘800 hanno cercato una vita migliore troppo spesso senza trovarla, subendo razzismo ma concorrendo alla creazione di questo nuovo genere dal DNA multietnico chiamato tango, dal momento che nonostante la resistenza iniziale si sviluppò una convivenza di valori e un processo di influenza reciproca e di contaminazione con le varie culture del Rio de la Plata.
Furono sopratutto i figli dei migranti a dare apporto decisivo allo sviluppo del genere (e già allora non potevano più dirsi del tutto italiani, quindi tecnicamente non erano stranieri, ma italiani-argentinizzati, allo stesso modo in cui molti criollos si italianizzarono: “il ballo ibrido della gente ibrida”).
Fava accenna anche alle due tendenze storiografiche sulla nascita del tango: prodotto dell’influenza reciproca tra società criolla e immigrati per i più, la difesa dalla perdita di identità causata proprio dai nuovi arrivati per altri.
Nella seconda parte troviamo la storia estetico-musicale del tango dalle origini ad oggi: dall’etimologia della parola alla sua associazione con la danza che noi conosciamo; la sua gestazione; i luoghi in cui è nato; il periodo della sua apparizione (coincidente proprio con l’ondata migratoria); i suoi predecessori dal punto di vista del ritmo base/passi coreografici; le lingue del tango; i principali temi dei tanghi canción; i luoghi dove veniva praticato (dai bordelli ai conventillos: parte di società sganciata dalle convenzioni morali borghesi e figure ai margini quali prostitute, guappi, protettori).
Qui l’autore sottolinea uno dei leitmotiv della sua esposizione: l’aspetto aggressivo e fortemente MASCHILISTA del sostrato sociale del tango, denunciando il ruolo imposto alla donna in quella società sessista, ossia proprietà/oggetto/merce sfruttata e sottomessa, aspetto che insieme a machismo, criminalità e culto della violenza veniva celebrato e persino esaltato nei testi dei tanghi delle origini (anche di alcuni tra i più famosi) e fino agli anni ‘20.
Si procede poi alla puntuale analisi musicale con tanto di esempi per cofrontare le differenze tra i vari stili/versioni dei brani più famosi e mostrarne i tratti caratteristici e l’evoluzione nelle varie epoche: il passaggio cruciale fu dagli anni ‘20, quando dallo stile scanzonato, giocoso e rapido dei primordi si è passati ad un tango più melodico e sentimentale che rispecchiava il cambiamento della tonalità timbrica ed emotiva, permettendone la diffusione anche al di fuori dei contesti ghettizzati (sobborghi) e tra la borghesia (centro città).
Fava passa quindi in rassegna alcuni autori di tango della cosiddetta guardia vieja che hanno dato l’impulso iniziale per innalzare il livello qualitativo del genere.
Il ballo va di pari passo con la musica, cambiando e adattandosi ad essa in favore di uno stile con pochi movimenti di gambe, più pudico, “decente”, sobrio, moralista: l’unico modo per poter essere accettato dalla società borghese e sopravvivere.
Il Repertorio è accomunato da una condanna e uno scoraggiamento nei confronti di chi cerca di uscire dalla propria classe sociale o quartiere, testi che “invitano alla conservazione dello status quo, ponendosi indirettamente dalla parte della classe dominante” attraverso lo schema: allontanamento-ritorno-perdono. Oltre all’aspetto morale, Fava si domanda quale sia il valore estetico del tango canción “con sguardo critico e ragionato”.
L’arrangiamento musicale nasce con il Sexteto De Caro, ma il raffinato sperimentalismo interpretativo si allontana dalle esigenze dei ballerini; la decadenza del genere viene arrestata da Juan D’Arienzo che avvia la cosiddetta epoca d’oro (‘35-’55), riportando i ballerini in pista con un ritorno a un ritmo più vivace ed energico con l’orchestra di nuovo protagonista (dopo che il tango canción aveva assecondato i gorgheggi dei cantanti a scapito della regolarità del ritmo).
Dalla fine dei ‘40, in parallelo, di nuovo instabilità politica che si ripercuote anche sul tango ballato: emerge Osvaldo Pugliese con il suo stile moderno che spiazza e allontana i ballerini anche a causa del sentimentalismo esasperato, e Astor Piazzolla: non più tango da ballare ma musica strumentale da ASCOLTARE. La “rivoluzione” di quest’ultimo si adattava al clima socio-culturale del decennio molto più del tango “tradizionale”. Si perde anche l’abbraccio.
Il tango è stato “resuscitato” dallo spettacolo Tango Argentino del 1983, attirando nuovi proseliti in primis con il ballo (“che evidentemente aveva ancora qualcosa da dire”); inoltre influirono il ritorno della voglia di coppia, la musica attualizzata dagli arrangiamenti moderni del Sexteto Mayor (più Pugliese e Piazzolla) e il fatto che tutti gli autori e i brani venivano presentati come BALLABILI. Oggi si balla per lo più la musica dei ‘30-’40: come mai una musica dalle origini così lontane nel tempo e nello spazio e sonorità così antiquate per noi hanno fatto e continuano a fare tanta presa sulle persone di ogni continente?
Dal 2000 si sono fatti tentativi di attualizzazione e ricerca (elettronica, tango nuevo); ora però ritorno agli arrangiamenti tradizionali con un perfezionamento di un genere esistente piuttosto che una sperimentazione di nuovi sentieri creativi: perché? Per sopravvivere ogni fenomeno deve cambiare, evolversi: il tango l’ha sempre fatto in tutta la sua storia. Se non si fosse adeguato, cambiando i suoi modi, probabilmente non sarebbe arrivato a noi. “Il tango è durato così a lungo perchè non è mai stato lo stesso tango”, adattandosi ai tempi e alle società in cui si trovava a vivere. “Ogni volta che si è spostato, il tango ha subìto dei mutamenti: questa prerogativa non deve essergli negata nemmeno oggi”, la conclusione di Fava.
Claudia Galati
Fava S., Tango argentino – la bellezza in un abbraccio, Edizioni Cinquemarzo, Viareggio, 2019, 309 pp.